"Mentire è il massimo del divertimento che una ragazza possa avere senza togliersi i vestiti."
Closer è, a mio avviso, una delle opere cinematografiche più emotivamente disturbanti.
Diretto da Mike Nichols, non racconta semplicemente storie d’amore, ma mette in scena una guerra di identità, dove l’intimità è al contempo rifugio e campo di battaglia. Ed è proprio questa ambivalenza a rendere il film così profondamente umano e sconvolgente.
L’opera si distingue per un’estetica essenziale e per la regia sobria ma intensa di Nichols, che fa del dialogo il motore principale della narrazione. I personaggi si muovono in spazi ristretti e curati, quasi teatrali, dove sono i volti e le parole, più che le azioni, a dare forma al dramma.
La sua forza film risiede nella capacità di raccontare amore, desiderio e tradimento senza mai scivolare nel sentimentalismo.
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Il cast è semplicemente impeccabile. 
Natalie Portman sorprende per la sua capacità di passare dalla fragilità più tenera alla freddezza più tagliente, incarnando un personaggio sfuggente e stratificato. 
Clive Owen, feroce e spietato, dà corpo a un uomo accecato dall’orgoglio e dalla gelosia, risultando disturbante e magnetico al tempo stesso. 
Jude Law è perfetto nel ruolo dell’intellettuale emotivamente instabile, vittima e manipolatore a un tempo. 
Julia Roberts restituisce con misura e ambiguità la complessità di Anna, una donna indecifrabile, attratta e respinta dalla verità. 
Tutti e quattro riescono a rendere umani, e perciò dolorosamente reali, personaggi che avrebbero potuto restare semplici archetipi.​​​​​​​
Nichols conserva la struttura episodica e il tono impietoso del dramma teatrale di Patrick Marber da cui il film è tratto, riuscendo a mettere a nudo la vulnerabilità umana nelle relazioni. 
Tra verità scomode, illusioni d’amore e ferite inevitabili, questo è un racconto che interroga e disturba, affascinando per la sua crudezza, in cui non c’è spazio per romanticismi consolatori: ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio ha un peso specifico. 
La macchina da presa indugia sui dettagli, uno sguardo, una pausa, un mezzo sorriso, trasformando il non detto in uno strumento narrativo dirompente.
Fondamentale è anche la colonna sonora, in particolare The Blower’s Daughter di Damien Rice, che apre e chiude il film. La ripetizione ossessiva del verso “I can't take my eyes off of you” diventa una sorta di mantra: esprime l’ossessione, l’idealizzazione dell’altro e la fragilità del sentimento amoroso.
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Il film tratto dal testo di Marber è un ritratto lucido e impietoso delle relazioni nell’era postmoderna, dove l’individualismo, la ricerca di autenticità e la mercificazione dell’intimità si scontrano con forza. 
I protagonisti, urbani, colti, benestanti, vivono in un mondo dove il sesso è accessibile, il tradimento è normalizzato e l’amore è contaminato da una continua, ossessiva ricerca della verità. Ma questa verità, invece di unire, distrugge. 
Nichols rappresenta una società in cui la coppia non è più un rifugio, ma un campo minato fatto di manipolazioni, confessioni, menzogne e risentimenti, dove l’onestà non è valore assoluto, ma arma o moneta di scambio.
È altresì una profonda dissezione dell’animo umano e delle sue contraddizioni. I quattro protagonisti sono insieme vittime e carnefici: nessuno è innocente. Tutti sono intrappolati in dinamiche tossiche, in cui il desiderio di salvezza si proietta sull’altro, senza però la capacità di amare in modo incondizionato. Gelosia, narcisismo e l’ossessione per i dettagli dell’infedeltà non portano alla guarigione, ma alimentano il dolore. 
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In questo contesto, la conoscenza diventa veleno: il bisogno compulsivo di sapere “quanto”, “come”, “perché” si trasforma in un rituale autodistruttivo.
La storia raccontata da Nichols mette in scena l’incapacità di amare in modo sano, la fragilità dell’individuo nel confronto con l’altro, e la tendenza a distruggere ciò che si ama per paura, insicurezza o bisogno di controllo. 
L’amore, qui, non è forza redentrice, ma sentimento ambiguo, capace tanto di unire quanto di separare. I personaggi non si amano per ciò che sono, ma per come si sentono visti, desiderati, idealizzati. 
E il film ci pone una domanda centrale e scomoda: siamo davvero capaci di amare l’altro per ciò che è, o solo per ciò che rappresenta per noi?
Closer è un’opera complessa e tagliente, che scava nelle relazioni con chirurgica lucidità. 
È teatrale nel linguaggio, ma profondamente cinematografico nell’intensità emotiva. 
È una storia d’amore senza eroi e senza romanticismo, che ci costringe a guardarci dentro con brutalità. La sua forza sta nel mettere a nudo la natura umana senza giudicare, lasciando lo spettatore con più domande che risposte. 
In questo senso, è un film che resta addosso, proprio come una relazione terminata in tragedia.

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