C'è stato un tempo in cui la sofferenza mi ha inghiottito senza preavviso.
Come un'onda spietata che mi ha strappato dalla terraferma e mi ha gettato in un mare sconosciuto. Non ho avuto il tempo di capire, di prepararmi. Un attimo prima respiravo l'aria familiare della mia esistenza, e un attimo dopo ero immerso in acque gelide, incapace di distinguere il sopra dal sotto.
L'orizzonte era scomparso, e tutto ciò che restava era il buio liquido intorno a me. Ho lottato, scompostamente, con la paura che mi serrava il petto e il fiato corto che si perdeva nelle onde. E più mi dimenavo, più il mare mi risucchiava in profondità.
Finché poi ho capito.
Ho capito che la disperazione è un vortice che si nutre della tua resistenza. Ho capito che non c'era un nemico da abbattere, né una riva da raggiungere a ogni costo. Ho capito che la sofferenza non era un avversario da annientare, non è una battaglia da vincere, ma un mare vasto e insondabile, un'immensità che ti circonda e ti attraversa. Una presenza silenziosa che si infiltra tra le ossa, che modella il respiro, che muta il peso del corpo nell'acqua.
Non so quando ho smesso di oppormi.
Forse è stato quando la stanchezza ha vinto la paura, o quando ho compreso che nessuna mano tesa mi aspettava. Quando ho compreso che non si trattava di vincere o di sconfiggere il dolore, ma di imparare a navigare in questa vastità senza fine.
E così ho smesso di lottare contro le onde e ho iniziato a muovermi con esse, lasciandomi cullare. Ho ascoltato il loro ritmo, ho sentito la loro voce sussurrarmi storie di chi, prima di me, aveva conosciuto la stessa deriva. Ho smesso di cercare la terra sotto i piedi e ho iniziato, semplicemente, a galleggiare.
Ho imparato a nuotare.
Oggi non cerco più di fuggire, non spreco più energie a combattere ciò che non può essere sconfitto. Mi muovo dentro la sofferenza con la consapevolezza che non mi definirà, che non sarà la mia prigione, ma solo il mare in cui ho imparato a respirare.
Ho accettato la sua presenza, il suo ritmo mutevole, le sue tempeste improvvise e le sue calme ingannevoli. Ho smesso di chiedermi quando finirà e ho iniziato a lasciarmi cullare, sapendo che ogni onda porta con sé un frammento di ciò che ero e di ciò che sarò.
E così, sospeso tra acqua e cielo, tra ciò che ho perso e ciò che ancora mi attende, capisco che non sono naufragato: sono diventato parte di quell’immenso oceano.