
GIORGIO
Era il 2012. La mia convivenza con Veronica stava ormai giungendo al capolinea, anche se non era ancora ufficialmente finita. Da pochi mesi ci eravamo trasferiti a Modena, in una villetta a schiera in via Europa. Fu una scelta necessaria ma ponderata.
Ancora oggi, ogni volta che il pensiero torna a quella casa, mi sorprendo a cercare le parole giuste per esprimere ciò che provo. È difficile spiegare quel groviglio di emozioni, un miscuglio sottile di malinconia e gratitudine. Malinconia per tutto ciò che è passato e non tornerà, gratitudine per ciò che quel luogo mi ha dato, per le memorie che, pur sbiadite dal tempo, continuano a scaldarmi il cuore.
All’ultimo piano c’era una mansarda con un camino: un rifugio caldo e silenzioso, dove il tempo sembrava rallentare e i pensieri potevano scorrere liberi, senza fretta. Fu lì che presero forma, ancora in modo inconsapevole, alcune delle cose più preziose della mia vita — e sempre lì, accaddero anche le più devastanti.
Io e Giorgio – mio fratello e compagno di avventure – già anni prima avevamo iniziato a collezionare libri, dvd e dischi in maniera quasi compulsiva.
In breve tempo ci ritrovammo a fare i conti con una mole ingestibile di materiale culturale, tanto da decidere di comprare quattro librerie Ikea, quelle quadrate e autoportanti, e usarle come pareti divisorie per riorganizzare l’open space.
Un’idea semplice, ma geniale: utilizzandole da entrambi i lati, riuscivamo a tenere tutto a portata di mano e, allo stesso tempo, a creare una piccola oasi della conoscenza, fatta di storie, copertine, titoli e autori che parlavano di noi.
Poi arrivarono le scrivanie: cinque, ognuna con una funzione ben precisa. Due erano dedicate ai nostri computer, una era destinata al mio pianoforte digitale e alla produzione musicale, una la usava Giorgio per disegnare.
E poi c’era la quinta. Quella delle pizze, delle partite a scacchi e delle chiacchierate con gli amici. Non saprei quantificare quante pizze vide quella scrivania, ma di una cosa sono certa: se fosse ancora aperta, Pizza Channel dovrebbe dedicarci almeno una targhetta.
Davanti al camino avevamo sistemato due poltrone, diverse, ognuna con la sua storia. Per concludere avevo installato delle lampade a luce calda – 3500 K – che oggi mi sembrano forse fin troppo avvolgenti, ma allora contribuivano perfettamente a dare a tutto quel piccolo mondo un tono morbido, riflessivo, sospeso. L’atmosfera che si era creata era unica: accogliente, intima, vagamente rétro.
Lì passavamo gran parte del nostro tempo, leggendo, scrivendo, disegnando e ascoltando musica.
Io e Giorgio eravamo perfettamente complementari. Condividevamo molte passioni – il cinema, la psicologia, la musica – ma ci differenziavamo per formazione e attitudini: lui era più orientato verso le materie scientifiche, mentre io avevo un’impronta più umanistica e sociale. Questa differenza non ci divideva, anzi: ci arricchiva profondamente. Era un continuo scambio di idee, impressioni e saperi, in un equilibrio spontaneo che si rinnovava ogni giorno. Potevamo parlare per ore di argomenti in cui eravamo entrambi ferrati, affondando nei dettagli e confrontando punti di vista, oppure perderci con entusiasmo in discussioni su temi nuovi, che uno dei due aveva appena scoperto o approfondito e sentiva il bisogno di condividere con l’altro. Ogni confronto diventava un momento vivo di crescita, un’occasione preziosa per imparare, riflettere e, spesso, anche mettersi in discussione.
Il dibattito, poi, era quasi uno sport. Argomentare, controargomentare, smascherare fallacie logiche – anche minuscole, impercettibili agli occhi dei meno allenati – era una delle nostre attività preferite.
E con Giorgio, inutile negarlo, non c’era mai davvero partita.
Nonostante fosse più giovane di me, possedeva una lucidità rara, una capacità di analisi affilata e una rapidità di pensiero che lo rendevano, senza mezzi termini, semplicemente superiore sul piano intellettuale. Era uno di quei rari casi in cui l’intelligenza sembrava naturale, quasi innata. Io, dal canto mio, compensavo con una maggiore attitudine alla pratica, alla sintesi e all’efficacia del fare.
Se lui vedeva lontano, io sapevo come arrivarci. Insieme eravamo una macchina ben calibrata: teoria e azione, mente e corpo, ragionamento astratto e intuizione applicata.
JOY
Poi, un giorno, Giorgio mi presentò l’altro Giorgio — per gli amici, Joy
In realtà lo avevo già conosciuto anni prima, ai tempi delle superiori, ma all’epoca era talmente impresentabile che probabilmente il mio cervello aveva attivato un efficace meccanismo di rimozione.
Per me fu quello il nostro vero primo incontro. Un giorno scriverò di quella serata: ancora oggi ne parliamo come se fosse stato qualcosa di divertente. In realtà, non lo era affatto.
Con Joy ci fu un’intesa immediata.
Non che sia difficile capirne il motivo: è uno di quei rari esseri umani capaci di metterti a tuo agio senza alcuno sforzo, grazie a una genuinità disarmante e ad una leggerezza profonda, mai banale. È quasi irritante il modo in cui riesce a farsi apprezzare da chiunque lo incroci.
In quel periodo aveva riscoperto la sua amicizia con Giorgio e veniva spesso a trovarlo, diventando presto parte integrante della nostra quotidianità. Insieme passavamo ore a parlare, riflettere, fantasticare. Di tutto.
Uno dei nostri giochi preferiti era inventare scenari – reali o assurdi – e provare a immaginarne le conseguenze da ogni possibile angolazione: sociologica, psicologica, filosofica, antropologica. Una forma di pensiero speculativo che ci affascinava e ci assorbiva completamente. Era come allenare la mente in palestra: spingere ogni idea fino al limite, esplorarne le implicazioni, rovesciarla e rimetterla in discussione.
Un luogo dove il sapere era vissuto come piacere, dove l’amicizia era anche intellettuale, dove ogni dettaglio – un film, una pizza, una frase detta per caso – poteva diventare punto di partenza per una riflessione più ampia.
Ogni tanto venivano a trovarci anche Ernesto e Raffaele, due dei nostri migliori amici. Quando arrivavano loro il tono cambiava, si rideva di più. Ma anche loro portavano idee, spunti di riflessione. Era perfetto.
Poi, a gennaio del 2014, Giorgio se ne andò. Improvvisamente. E per un momento, tutto il mio mondo sembrò crollarmi addosso. In fondo, è proprio quello che accadde. Ma quella è una storia che merita un racconto a sé — uno ben più difficile da scrivere.
La mansarda si svuotò. Non materialmente: le scrivanie, le librerie, i libri, i dischi e i dvd rimasero al loro posto. Ma da quel giorno in poi, a tutto questo si aggiunse la sua assenza.
O meglio, la sua presenza invisibile: il suo fantasma.
Per tutto il tempo che rimasi in quella mansarda mi sembrava di sentirlo ancora, a passeggiare tra le librerie, a sgranare gli occhi davanti a un nuovo argomento, a correggere con pazienza le mie fallacie.
Fortunatamente non rimasi solo. I miei amici non me lo permisero. Joy fu una presenza costante. Ernesto e Raffaele non mancarono mai.
Eugenio, nonostante i problemi che all’epoca ci furono tra noi, non mancò di passare a trovarmi. Raffa, Gianluca, persino Fabio – il mio migliore amico dai tempi delle elementari – tornò a farsi sentire, solo per farmi sapere che c’era. E questo per me, in quei giorni, significava tutto.
In quel periodo conobbi anche Elena, una persona che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella mia vita e che presto sarebbe diventata la mia fidanzata. Contemporaneamente strinsi una sincera e profonda amicizia con Gianluca, che oggi vive in Canada ma che continuo a ricordare con grande affetto.
Eppure, ciò che davvero mi mancava era un interlocutore stabile, qualcuno con cui condividere idee, confrontarmi, pensare insieme.
GIGLIO
Per qualche anno cercai di colmare quel vuoto in solitudine: lessi molto, studiai, scrissi.
Ma senza un confronto autentico, senza quella scintilla che nasce dal dialogo vivo, mi sentivo incompleto, come se mi mancasse un pezzo fondamentale per dare pieno senso a tutto quel percorso.
Così iniziai a dibattere su Facebook. “Sparring argomentativo”, lo chiamavo, ridendo con Giorgio. Un modo per tenermi in allenamento. Ma lasciava il tempo che trovava.
Eppure, non tutto il male veniva per nuocere: proprio lì, su Facebook, conobbi Mamu, che sarebbe poi diventato un caro amico. Un soggetto, scriverò anche di lui.
E soprattutto, conobbi Michele Giglio. Un giorno scrissi: “Consigliatemi persone da seguire che scrivano qualcosa di interessante di tanto in tanto”. Bruno – un altro amico – taggò Michele. Guardai il suo profilo. In effetti, pubblicava meme niente male. Lo aggiunsi.
Qualche mese più tardi mi trovavo allo Zooky con Elena, quando entrarono due ragazzi. Appena ne vidi uno pensai: “Lui lo conosco.” Mi avvicinai e, porgendogli la mano, dissi: “Tu sei Michele Giglio!”
Lui me la strinse subito, sorpreso: “Pazzesco, piacere! Lui è Roberto.”
Anche Roberto mi diede la mano con un sorriso.
Chiamai Elena e le dissi di raggiungerci. Quando arrivò, la presentai: “Lei è Elena.”
“Bevete qualcosa con noi?” chiesi.
“Volentieri!”
E fu così che conobbi uno dei miei più cari amici, di cui scriverò un giorno.
Qualche giorno più tardi, Giglio mi invitò al suo compleanno, e lì conobbi Spalla, Trotta e Cervetti. Parlando con loro scoprì che tutti loro avevano studiato matematica.
Ripensandoci, anche Joy è un matematico... ma perché mi circondo di matematici, io che della matematica ne so quanto di umiltà? Domande per gli psicologi.
Eppure, mi trovai subito a mio agio in loro compagnia: erano ragazzi giovani, come me, e il contesto era informale, ma i temi e le conversazioni non erano mai banali.
Fu proprio questo a farmi riscoprire quella sensazione di appagamento intellettuale che andavo cercando da tempo.
Così, un giorno, chiamai Giglio e gli dissi: “Sai cosa, Giglio? Voglio mettere su un salotto culturale. Un posto dove incontrarci e parlare di qualsiasi cosa, purché sia approfondita e ben argomentata.”
Altri probabilmente mi avrebbero risposto con un: “Ma che dici, Carlo? Non siamo mica nella Parigi dell’Ottocento.” Giglio invece disse:
“Ci sto, Carlo. Mi sembra una bellissima idea.”
Proprio in quel periodo conobbi — sempre su Facebook, e sempre grazie a Bruno (chi ha detto che Bruno è un inutile sacco di m...?) — un certo Mamu: un ragazzo che, con una sola battuta, mi fece saltare su dalla poltrona. Un altro soggetto interessante. Invitai anche lui.
Adoro le persone recettive che accolgono positivamente il mio propositivismo, invece di sprecare le proprie energie a cercare di smontarmi.
IL SALOTTO MONTALVO
Tempo una settimana, ci ritrovammo nel mio appartamento di via Sigonio: ricordo che al primo appuntamento c’erano Giglio, Spalla, Trotta, Mamu, la sua (ex) fidanzata Angie, Eleonora, amica, truccatrice e sociologa, Elena, che ancora non sapeva bene cosa avessi in mente, e infine Ernesto, che non sapeva nemmeno di cosa si trattasse, ma visto che si mangiava e si beveva, per lui andava benissimo così.
Con il tempo si aggiunsero anche altre persone: Mari, sorella di Elena e sorellina di adozione, Giovanni, ex fidanzato di Eleonora, filologo e appassionato di musica, una persona brillante, Lisa, amica di Angie e di Mamu, che poi diventata fidanzata di quest’ultimo (whaaaaat?), Beatrice, cantante e docente di canto di Elena, una nostra cara amica che ricordo ancora con affetto, insieme al suo ex fidanzato Alessandro, filosofo, con idee spesso diverse dalle mie ma che rispettavo, Tiffany, una ragazza dalla bellezza magnetica che sembrava uscita da un film di Almodóvar, e molti altri ancora. Ognuna con il proprio bagaglio culturale ed esperienziale, la propria visione, le proprie ossessioni – alcune luminose, altre più cupe, ma tutte genuine.
Quel salotto andò avanti per anni.
Non era una compagnia nel senso tradizionale del termine: era un crocevia di idee, passioni e prospettive. Un luogo vivo, in continua evoluzione, dove le persone entravano ed uscivano, ma lasciavano sempre qualcosa di sé.
Era bello perché era autentico. Perché nessuno veniva per apparire, ma per esserci davvero. Si discuteva, si ascoltava, si rideva, a volte si dissentiva. Ma non ricordo un solo dibattito che sia finito in una litigata sterile, come spesso accade sui social.
E questo, col senno di poi, rappresentava un valore aggiunto non da poco: uno spazio di confronto vero, in cui il disaccordo non era una minaccia, ma un’occasione.
Poi, come accade per tutte le cose, anche quel ciclo si chiuse. Ognuno prese la propria strada: chi verso altre città, chi verso nuovi gruppi, nuove fasi della vita. Ma, almeno per quanto mi riguarda, ne conservo un ricordo nitido e luminoso.
Nessuna nostalgia amara, solo gratitudine. Quei momenti restano per me un punto fermo nonchè un fondamento per ciò che sarebbe venuto dopo, Café Society, un progetto che meriterebbe più di un racconto – e prima o poi glieli dedicherò tutti.
CAFÈ SOCIETY
Oggi, a distanza di sei anni, ci risiamo: lancerò un nuovo salotto culturale.
Alcuni dei volti di allora — come Giglio, Mamu, Cervetti e Spalla — saranno ancora con noi. Altri, inevitabilmente, non potranno esserci più.
Faremo esattamente ciò che ci piaceva fare, a me, Giorgio e Joy, in quello studio di via Europa, e poi con tutti gli altri nel mio salotto in via Sigonio: confrontarci, immaginare, mettere in discussione, costruire visioni – e, soprattutto, ragionare insieme.
Ci saranno anche nuove presenze, nuovi interlocutori, nuovi sguardi — a cominciare dal team di Café Society. Altri ancora arriveranno per affinità, altri per curiosità, altri per caso.
Al di là delle modalità di adesione, ciò che conta davvero è che sarà uno spazio di condivisione e confronto, dove la cultura e la conoscenza saranno vissute come un piacere e non come un dovere.
Non verità assolute, non risposte definitive.
Ma domande migliori. E persone interessanti con cui continuare a farsele.