
Avevo sei anni. Scalmanato, dicono. Io non ricordo bene, o meglio sì, ma non come lo raccontano gli altri. Ricordo però la luce del pomeriggio che entrava dalle finestre, le tende che si muovevano leggere, e mia madre spesso al telefono con qualche amica. Chiamate lunghe, fitte di risate e sospiri, mentre io vagavo per casa in cerca di avventure.
Il mio campo base era il suo armadio.
Per me era una specie di caverna del tesoro. Non cercavo nulla in particolare, ma ogni cosa sembrava preziosa: foulard in seta colorata, scarpe col tacco altissimo, boccette di profumo con il tappo dorato. E poi, un giorno, l’ho trovata: una vecchia Canon a pellicola. Pesante, nera, bellissima. Non avevo idea di come funzionasse, ma non lo sapevo, e quindi la usavo lo stesso.
Prendevo, puntavo, scattavo.
E scattavo sempre verso lei, mia madre. Giovane, sempre curata, sempre bellissima, a volte era voltata, a volte rideva, a volte parlava ancora al telefono, ignara di ciò che stavo combinando. Poi si voltava e mi diceva, tra il finto infastidito e il divertito: “No, no, no, quella no”.
Ma era sempre troppo tardi. Avevo già scattato.
Chissà che fine hanno fatto quelle foto. Alcune forse mai sviluppate, altre perse, scolorite, dimenticate. Ma qualcuna è rimasta. Una, forse due. E ogni volta che le riguardo, rivedo tutto: la luce dorata, la tenda che si muove, le mie mani piccole strette su una macchina troppo grande, e quello strano istinto di voler immortalare un momento.
Perché, sì, ironia della sorte, oggi sono un fotografo. Con l’occhio più attento, una tecnica affinata e una Fujifilm al posto di una Canon. Ma in fondo continuo a fare la stessa cosa di allora: prendo, punto, scatto.
E i miei scatti preferiti? Sempre gli stessi: quelli rubati.
Quelli in cui nessuno è pronto, nessuno posa, nessuno finge.
Quelli in cui, ogni tanto, qualcuno mi guarda e dice: “No, no, no, quella no”.
E io, ovviamente… scatto comunque.
Quelli in cui nessuno è pronto, nessuno posa, nessuno finge.
Quelli in cui, ogni tanto, qualcuno mi guarda e dice: “No, no, no, quella no”.
E io, ovviamente… scatto comunque.
Solo adesso mi rendo conto che, in mezzo a tutte quelle fotografie improvvisate, sbagliate, sfocate la mia prima musa era lì, davanti a me, ogni giorno: mia madre.