Al primo ascolto mi ha ipnotizzato; ho dovuto concentrarmi su un secondo per capire meglio le mie emozioni.
Al terzo me ne sono innamorato. Dopo qualche ascolto – ho capito che mi avrebbe ossessionato: Hot Blooded dei New Constellations.
Non ero ancora arrivato a metà dell’anno, ma avevo già capito che quel pezzo avrebbe dominato il mio Wrapped, scalzando prepotentemente una certa band di nome Phantogram, con la loro meravigliosa Fall in Love (Until The Ribbon Breaks Reimagination) – di cui scriverò a breve – rimasta in cima alle mie classifiche per quattro anni consecutivi.
Ma prima qualche accenno biografico.
I New Constellations sono un duo indie/dream-pop emergente di Portland, Oregon, formato dalla meravigliosa Harlee Case e Josh Smith.

Da quanto ho potuto leggere, sono amici fin dall’adolescenza e hanno iniziato a sperimentare musicalmente da giovanissimi. Solo dopo quindici anni di esperienze separate si sono ritrovati per creare questo bellissimo progetto, che fonde melodie sognanti, chitarre avvolte nel riverbero e una voce potente, disarmante, a tratti struggente, creando un paesaggio sonoro onirico e sconvolgente.
La voce di Harlee Case è probabilmente uno degli elementi più distintivi e potenti del sound del duo.
Dotata di un timbro cristallino ma ricco di sfumature emotive, riesce a trasmettere una vulnerabilità palpabile anche nei momenti di maggiore intensità sonora. A tratti, la sua voce si fa lievemente graffiata, una sfumatura ruvida che aggiunge profondità e realismo all’interpretazione, rendendola ancora più incisiva.

In questo pezzo, la sua interpretazione vocale oscilla tra la delicatezza e l’urgenza, costruendo un crescendo che accompagna perfettamente la tensione emotiva del brano. La sua voce è un veicolo espressivo capace di comunicare desiderio, inquietudine e forza con autenticità disarmante.
Le chitarre – grazie ai bend, ai vibrati sottili e al riverbero luminoso – permettono alle note di diffondersi con delicatezza, sostenendo perfettamente l’atmosfera sognante del brano.
A tratti assumono un fraseggio che porta con sé una patina struggente e decadente, tipica di quei generi in cui diventano quasi una seconda voce.
E poi ci sono i synth.
Chi mi conosce sa quanto ami le linee di synth intense e raffinate, e in Hot Blooded ho ritrovato qualcosa che mi richiama alla mente i Phantogram nel loro prime: arpeggi pulsanti, pad avvolgenti dal gusto decisamente analogico, e una produzione che intreccia malinconia e tensione emotiva con precisione chirurgica.
Mai invadenti ma sempre presenti, costruiscono una struttura morbida ma insistente, evocando atmosfere crepuscolari e ipnotiche.

C’è anche, qua e là, un’eco lontano di Kavinsky: quel gusto rétro-futuristico, notturno, quasi da colonna sonora, che aggiunge un tocco cinematografico al tutto.
Ma è più una suggestione che una somiglianza diretta: qui i synth parlano la lingua del desiderio e dell’inquietudine, più che della nostalgia.
Il videoclip, diretto da Travis Abels, è un’esperienza visiva neo-noir.
La fotografia sfrutta contrasti decisi e una palette di neon rosa, viola e blu che evoca gli anni ’80 con influssi vaporwave, mentre una sottile simbologia esoterica attraversa ogni inquadratura.
Le inquadrature oscillano tra primi piani ravvicinati della protagonista, enfatizzando l’espressività del volto e l’intensità emotiva del brano, e piani lunghi che mostrano spazi architettonici industriali, suggerendo un senso di isolamento urbano.

Appare evidente l’influenza di registi come Nicolas Winding Refn, soprattutto per l’uso del neon e della luce artificiale come elemento narrativo.
Allo stesso tempo, però, si sviluppa una sorta di doppia narrazione visiva:
da una parte domina l’estetica notturna, tagliente e sensoriale tanto cara a Refn, mentre dall’altra si affaccia un gusto compositivo che ricorda l’estetica di Wes Anderson, con simmetrie studiate e colori pastello che introducono una dimensione più controllata, quasi onirica.
In alcune sequenze, inoltre, si avverte un’atmosfera sospesa e malinconica che potrebbe richiamare anche Sofia Coppola, mentre il ritmo visivo e la cura coreografica delle inquadrature evocano in parte la grammatica immersiva di Gaspar Noé.
Questo intreccio di riferimenti costruisce un linguaggio visivo stratificato, capace di affiancare sensibilità estetiche molto diverse senza mai risultare forzato.

E poi – proprio ieri – ho scoperto la registrazione dell’esibizione in studio per il Tiny Desk Contest.
È incredibile come siano riusciti a elevare un pezzo già perfetto, e lo hanno fatto con l’imperfezione. Le microvariazioni nei toni e nell’intonazione aggiungono un tocco di autenticità e rendono l’esecuzione più intensa e personale.
E il finale, poi, totalmente inaspettato, rende questa versione ancora più speciale dell’originale. Mi auguro che un giorno venga inserito in una versione rimasterizzata del disco.
Al di là di estetica, virtuosismi o tecnicismi, questo pezzo mi ha rapito. Forse perchè l’ho scoperto in una notte complicata della mia esistenza, diventata poi simbolo di un amore struggente, proprio come la canzone.
Forse perché sono uno di quei romantici che tendono ad associare la musica a momenti ed episodi in modo compulsivo, o forse è tutto questo insieme. Non lo so.
Quello che so è che sono pronto a scommettere che questi due ragazzi diventeranno grandi.
O almeno, è ciò che gli auguro con tutto il cuore.
